Dopo quasi vent’anni di mancata partecipazione al venerdì santo il percorso mi sembra accorciato, e non di poco, eppure attraversiamo il solito viale centrale in senso inverso, e la stessa friggitoria adesso chiusa rimane il mio punto di riferimento a indicare l’arrivo oltre l’angolo, non prima della serpentina tra i vicoli laterali decorati dai sacchetti di sudicio appesi ai balconi. Arriviamo dopo neanche un’ora ai piedi del basamento di marmo che rappresenta il Golgota; con l’ausilio delle scalette i preti e gli aiutanti raggiungono le croci – tre, due simboliche minuscole al cospetto della gigantesca centrale – mentre i portatori issano con sforzo devoto i due simboli sacri. La Vergine posizionata alla destra del patibolo, il condannato di fronte, pronto a lasciarsi spogliare della pesante tunica viola. «Bello pupiddru, eh? Del 1700, ancora sano sano», mi sospira un signore di fianco, con una giacca in velluto troppo pesante per le temperature pasquali, e scura a sufficienza da esaltare il tappeto di forfora accumulatosi florido sulle sue spalle. «Bellissimo, tremendo», rispondo mentre mi accanisco con lo sguardo sulle giunture del fantoccio sottili al punto da svelare la natura artificiosa della scena, sul viso che esprime paura mescolata a minacce di vendetta, e in generale su tutto il resto del corpo.

Estratto dal racconto "VENERDÍ SANTO", pubblicato da Catartica Edizioni all'interno della raccolta "FUJIRE È VERGOGNA", di Gianni Romano.