Bello, Liborio, bello forse più del primo piccolo Salvatore, smosso e poi rimosso dalla terra dalle bombe piovane in alto oceano. Bello, e di una maleducazione unica; salutare così, al netto della gratitudine riservata ai padri e ai fratelli. Il figlio pigro venne trascinato oltre atlantico per una breve fermata lavorativa, breve e ben remunerata. E lì decise di rimanere quando venne il momento di sbaraccare, lasciando il papà solitario al molo, sorpreso nel vedere che quel disgraziato non riusciva a riconoscere i visi della truppa e voleva correre incontro ai suoi nuovi diavoli. Passò la notte prima della prevista partenza nella stessa tana dove aveva trascorso le sere precedenti durante quella breve esplorazione. Bevve i soliti intrugli e ballò bene – così almeno gli dissero – i balli scoperti ai margini della Patagonia. Ballò fino a incrociarsi con l’avvenente locandiera, riuscì infine a baciarle la cicatrice sulla guancia e poi vide dimenticare la sua vita e il suo nome, fino a quando non venne spinto a calci verso il porto alle prime luci. «CChì michia ti dice di bere come una schifezza, ora in nave che fai? Ci rompi l’anima per una notte almeno.» «Se mi lasciate non vi scanno, non lo so chi siete, ma lasciatemi o vi ammazzo. Quel vecchio, fossi davvero figlio suo, mi vergognerei di quella testa che si ritrova, e della sua espressione, e lo nasconderei ai miei affetti. Non siamo parenti, non mi viene padre.»

Estratto dal racconto "FUJIRE", pubblicato da Catartica Edizioni all'interno della raccolta "FUJIRE È VERGOGNA", di Gianni Romano.